Le alghe nel futuro del cibo

Le alghe nel futuro del cibo

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Ne facciamo uso tutti i giorni anche se non ne siamo consapevoli, senza contare che non sappiamo assolutamente nulla di come vengono raccolte o coltivate. Usate fin dalla preistoria per l’alimentazione umana, da decenni in cosmetici e altri prodotti non alimentari, le alghe rappresentano oggi a livello mondiale un’industria tutt’altro che marginale e, soprattutto, una prospettiva di crescita.

Recentemente riscoperte come “novel food” dalle proprietà miracolose, le alghe sono proposte come  l’ennesima promessa di alimentare le comunità più povere con cibi dal gran valore proteico, non più creando monocolture terrestri, ma tuffandosi nelle nuove praterie sommerse.

 Ma quali sono le opportunità economiche e ambientali, e, soprattutto, qual è il vero impatto sociale ed ecosistemico della loro produzione? Di questi e altri interrogativi se ne è occupa Slow Fish a Genova durante la manifestazione organizzata da Slow Food e Regione Liguria che guarda alla complessità degli ecosistemi marini e una delle prime in presenza del calendario nazionale.

 Un milione di esemplari, 6 miliardi di dollari di giro di affari

 Secondo gli esperti esistono tra 30 mila e 1 milione di esemplari di alghe, e della maggior parte di esse non sappiamo assolutamente nulla. Quelle che conosciamo, e coltiviamo, al momento perlopiù per il consumo umano, secondo gli ultimi studi fruttano globalmente circa 6 miliardi di dollari, con una crescita esponenziale anno dopo anno.

 I paesi che praticano l’alghicoltura sono 50 con la Cina e l’Indonesia che guidano la classifica, e condizioni sociali e remunerazione per chi ci lavora ai minimi livelli per mantenere i prezzi bassi. Stati Uniti ed Europa, per parte loro, in questi ultimi anni stanno cercando di recuperare a gran ritmo.

 La coltivazione di alghe: soluzione o problema?

 La coltivazione di alghe è promossa dagli organismi internazionali come soluzione alla penuria di terre e di cibo a livello globale, come mitigante degli effetti dei cambiamenti climatici e dell’acidificazione delle acque oceaniche. Secondo la Banca mondiale, ad esempio, la coltivazione di 500 mila tonnellate di alghe arriverebbe a consumare 135 milioni di tonnellate di carbonio, che rappresenta il 3,2% della quantità assorbita dal mare a causa dell’emissione di gas serra. 

 Tuttavia non sempre gli effetti dell’introduzione di specie aliene lungo le barriere coralline degli oceani che ospitano queste distese galleggianti sono prevedibili. Diversi studi hanno confermato casi di distruzione degli ecosistemi e, conseguentemente, la privazione di sovranità alimentare e opportunità sociali ed economiche per le comunità della pesca che  a quegli ecosistemi devono la propria sopravvivenza. 

 Si tratta comunque di acquacoltura e come tale la produzione di alghe viene additata dagli ambientalisti. Secondo l’esperto statunitense Paul Molyneaux, che partecipa al webinar ospitato da Slow Fish Giardini di Alghe o monocolture? Se le alghe diventano i nuovi campi di mais: «L’unica crescita economica reale è quella che consente all’ambiente, agli ecosistemi, e alle risorse naturali in genere di prosperare. E l’alghicoltura non garantisce nulla di tutto ciò». 

Da alimento strano a cibo ricercato

 Esiste tuttavia anche un approccio di rispetto verso questi organismi così primordiali dalle potenzialità così significative, come racconta la raccoglitrice di alghe selvatiche canadese Amanda Swinimer nella sua Food Talk La bellezza delle alghe. Fondatrice di Dakini Tidal Wilds, sull’isola di Vancouver, il suo approccio è diretto a un più sano rapporto tra mare ed esseri umani.

 Racconta Swiminer in un’intervista: «Per i primi anni dopo aver iniziato la mia attività, Dakini Tidal Wilds, nel 2003, ho venduto le mie alghe ai negozi di alimenti naturali e a un solo ristorante, specializzato in cucina crudista e vegana. La mia clientela a quel tempo erano principalmente persone interessate agli enormi benefici per la salute di questo alimento. Poco conosciute in Occidente, sfortunatamente le alghe godevano della reputazione di essere “strane e dal sapore di pesce”. Ma intorno al 2014 questa reputazione ha iniziato a trasformarsi da strana a meravigliosa. Ero entusiasta del fatto che stessero diventando riconosciute non solo per le loro proprietà salutari e nutrizionali, ma anche apprezzate per il loro unico umami. Attribuisco questo meraviglioso risultato in gran parte all’incredibile talento di molti degli chef che oggi svolgono un lavoro pionieristico».

Le alghe nelle cucine di Slow Fish

 E tra questi a Slow Fish c’è Antonio Labriola, 35 anni di Marsico Nuovo in Basilicata, psicologo criminale e consulente in ambito gastronomico a Torino. Per la sua regione in questi giorni propone una antica ricetta fatta con mischiglio, cioè un mix di farine un tempo recuperate dai contadini nei mulini e arricchite con rimanenze di farine di legumi, ceci, lenticchie e cicerchie. Impreziosito con spirulina che, oltre a fornire un buon profumo di mare e un grande apporto proteico, unisce mare e terra. Con il mischiglio Antonio realizza pasta tradizionale, come cavatelli e ferricelli che per il pubblico di Slow Fish condisce con buon pescato delle comunità della pesca lucane e con gli immancabili peperoni cruschi, ingredienti che ben rappresentano l’indissolubile interconnessione tra mare e terra.

 Dove può uno chef procurarsi le alghe? Quando è a Torino, Labriola le acquista in pescheria, oppure, quando è in Basilicata le raccoglie personalmente, esattamente come fa Amanda Swinimer. Non solo alghe, ma anche piante selvatiche marine, come la salicornia – o asparago di mare – e il finocchio di mare. 

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